Progetto Mediterraneo

L’ITALIA È CINTA, MA NON DELL’ELMO DI SCIPIO di Salvatore
Sammarro
LA SITUAZIONE IN LIBIA(2011-IN CORSO) di Maciej Viella
L’AZIONE GEOPOLITICA DELLA RUSSIA NEL CONTESTO DEL
MEDITERRANEO di Giuseppe Iarrusso
LA VOCAZIONE(MANCATA)NEOATLANTICA DELL’ITALIA di
Francesco Cirillo

L’ITALIA È CINTA, MA NON DELL’ELMO DI SCIPIO

Sin dall’antichità, il controllo della penisola italiana è stato fondamentale nello scacchiere geopolitico mediterraneo, basti pensare ai greci dell’età classica o ai romani stessi che dal “bel paese” controllarono un impero vastissimo attraverso una civiltà dotata di forza di volontà, dedizione al sacrificio e soprattutto organizzazione della società (quella romana appunto) che per molti versi risulterà essere irripetibile. In questo periodo le politiche economiche, sociali, culturali e religiose all’interno del mediterraneo venivano saldamente decise da una città costruita Ex Novo: Roma. Dopo il crollo dell’impero, alla penisola rimase poca voce in capitolo sulle decisioni politiche e così sarà fino ai giorni nostri, infatti la maggior parte delle realtà politiche nate sul territorio successivamente, ebbero un ruolo subordinato rispetto al passato anche se economicamente preminente (come l’età delle repubbliche marinare), ma militarmente e politicamente incapaci non solo di non fare rispettare una linea adottata, ma soprattutto di esprimerne una. Ma diverso è il discorso per il mediterraneo che è stato e continuerà ad essere un punto d’interesse strategico per lo scenario politico ed economico nonché militare nel mondo. Tuttavia, come sopracitato, nel corso del tempo le civiltà che si sono succedute hanno attecchito al suo ruolo da protagonista assoluto nel panorama politico, riversando inevitabilmente tale debolezza anche sugli scambi commerciali. La decadenza mediterranea è altresì attribuibile a più fattori, o meglio a diverse cause concomitanti sulla quale ancora oggi gli storici navigano in una grande discordia, per quale sia o meno la più determinante. Tra queste vi troviamo un probabile disfacimento delle flotte navali delle potenze marittime presenti nel mediterraneo, incapaci di mantenere i livelli qualitativi e quantitativi delle epoche d’oro e di restare comunque a passo con i tempi. Quest’ultima supposizione dà le fondamenta per un’ ulteriore tesi basata sull’inettitudine o sulla volontà della politica stessa di guardare con maggiore interesse alla scoperta del nuovo mondo, lasciando l’immenso territorio e annesse rotte commerciali alle potenze extra-mediterranee. Infatti esse abbandoneranno quasi totalmente le vecchie rotte nel mediterraneo se non per pochi porti presenti soprattutto nel nord della penisola italica, lasciando intravedere già da questo periodo lo scarso interesse per i prodotti commerciali dell’Italia meridionale. Le scoperte geografiche sono da considerarsi infatti una seria minaccia per il ruolo egemonico rivestito nel passato dalle potenze presenti nel mediterraneo, poiché non solo la già citata scoperta di Cristoforo Colombo viene presa in considerazione per la perdita di attrattiva, ma anche un’altra esplorazione questa volta portata avanti dai portoghesi che, circumnavigando le coste africane grazie a delle imbarcazioni tecnicamente più avanzate, riescono ad attraversare il capo di buona speranza arrivando laddove gli spagnoli con Colombo non erano riusciti: l’oceano Indiano. Un’esplorazione di quella portata tolse del tutto il monopolio del commercio con l’oriente nonché di interlocutori privilegiati grazie alla posizione geografica alle potenze del mediterraneo soprattutto all’impero Ottomano. Paradossalmente il declino di quest’ultimo, considerato dall’intera cristianità, esclusa la Francia, come nemico assoluto portò al tracollo stesso del mediterraneo, coinvolgendo nel vortice la regione che può essere considerata l’ancora del mediterraneo, la penisola italica. Dopo quasi un millennio e mezzo il bel paese tornerà ad essere unito politicamente dopo le tante battaglie combattute dal Risorgimento e soprattutto grazie all’aiuto di altre potenze che pur tuttavia non frena lo stallo economico e sociale del sud del paese seppur il nord riuscirà comunque ad entrare nel circuito industriale globale, ma pur sempre limitato anch’esso. Non trascorre molto tempo per comprendere che l’Italia unita dunque ha notevoli difficoltà ad imporre nel proprio mare politiche atte a garantire gli interessi della patria; basti ricordare il famoso “famoso schiaffo di Tunisi” che in prospettiva coloniale viene considerata come una clamorosa debacle della politica italiana a favore di quella francese. La “Giovine Italia” mostra debolezze un po’ verso tutte le grandi potenze che a fine XIX° secolo erano già affermate, dimostrando nella maggior parte dei casi una certa sudditanza nelle mire politiche ed economiche nel mediterraneo, quasi da colonia, al quanto inappropriata per chi nello stesso mare vi ha la sua dimora. Ciò nonostante episodi di forte decisionismo non sono mancati in un secolo e mezzo di costituzione, anche se avvenuti in maniera sporadica e soprattutto senza la giusta continuità, capace di conferire un ruolo di prim’ordine per dettare riforme e processi atti a garantire l’incremento delle condizioni economiche partendo da iniziative nostrane. Il ruolo di alleato strategico degli USA a poco è servito se non a questi ultimi che, grazie alla nostra posizione strategica, dispongono di basi importantissime, dalle quali riescono ad intervenire facilmente in Europa in caso di criticità, vedi Jugoslavia. Ad ogni modo, il problema non può e non deve essere riconducibile agli USA, alla Francia o ad altri Stati bensì è fondamentale fare un’ introspettiva sui propri obiettivi su cosa è necessario perseguire e soprattutto quale ruolo si vuole giocare in un mediterraneo che sempre più diventa periferia. Anche perché senza questo metodo si rischia non solo di perdere parecchie opportunità ma soprattutto di indirizzare male quelle a cui si partecipa come la “belt and road initiative”, meglio conosciuta come nuova via della seta, in cui in caso di mancato indirizzo preposto a mettere l’Italia al centro dell’iniziativa come playmaker dei traffici commerciali generati da essa nel mare nostrum, anche la partecipazione a questa iniziativa a cui il governo M5S ha preso parte finirà per mettere l’Italia in una posizione di passività nei confronti dei suoi partner commerciali, legittimando in tal caso le lamentele dei nostri alleati USA e EU in merito alla non reciprocità per le aziende europee, quindi anche italiane, contenuta nel protocollo firmato dal premier Conte e dal presidente cinese Xi Jinping.

La Situazione in Libia (2011-in corso)

I PRECEDENTI
Da un mese a questa parte ormai la questione libica è nuova esplosa, le forze di Haftar apparentemente sopite il 4 aprile 2019 hanno iniziato l’avanzata verso tripoli fermandosi a 15 km dalla città. Come è facile intuire anche per chi non studia le relazioni internazionali la guerra a cui l’Italia sta assistendo non vede contrapposti solamente due governi interni al paese bensì due schieramenti volti a fare gli interessi della propria zona; attori internazionali il cui unico scopo è rimasto lo stesso dalla guerra ormai scoppiata otto anni fa: i giacimenti petroliferi. Per poter cogliere però e poter analizzare in maniera razionale una zona geopolitica al meglio non si può circoscrivere il tutto agli avvenimenti dell’ultimo mese ma bisogna risalire al modo in cui il secondo conflitto libico, quello per il dominio della nazione dopo la caduta di Gheddafi ha avuto inizio, di come le parti in conflitto hanno interagito in questi anni a partire dal 2014. Quanto segue cercherà di essere un rapido excursus , per quanto possibile, dei motivi che hanno portato alla frattura del paese e come attori terzi si sono inseriti nel conflitto, tenendo ovviamente un occhio di riguardo per l’Italia, media potenza mediterranea che vive in primo luogo la crisi per problemi che direttamente coinvolgono lo stato quali; immigrazione e difesa do interessi nazionali, nella speranza di riuscire a delineare una strategia per gli eventi futuri che attanagliano la politica interna e non solo.

I DUE GOVERNI
La Libia ad inizio 2014 è governata da Congresso Nazionale generale eletto con durata di 18 mesi nel luglio 2012, dal momento dell’elezione del 2012 i partiti islamici hanno preso il controllo a discapito della maggioranza centrista e liberale. Questa deriva religiosa della politica libica della politica porterà all’elezione nel giugno del 2013 di Neri Busahnain e nel dicembre dello stesso anno all’applicazione di una forma modificata della Sharia. Sarà nell’anno seguente (2014) a fare la comparsa nello scenario politico nazionale il generale Khalifa Haftar(ex sottoposto di Gheddafi); egli richiederà lo scioglimento del CNG e a chiedere nuove elezioni, minacciando il colpo di stato. Quattro mesi dopo (16 Maggio 2014) Haftar lancia l’operazione dignità (Amaliya al Kramah) contro i gruppi islamisti a Bengasi liberando così il paese. Il presidente Al-Thani però non riconobbe l’operazione e la condannò in quanto illegale bollandola come un tentato golpe. Il 18 maggio le milizie di Zitan (fedeli ad Haftar) attaccano il parlamento di tripoli portando cosi allo scioglimento delle camere. Vengono indette nuove elezioni, l’affluenza sarà del 18%. I risultati vedono la sconfitta dei partiti islamisti a favore di liberali e federalisti. Secondo le nuove
disposizioni elettorali il parlamento dovrà riunirsi a Bengasi, come simbolo di avvicinamento all’occidente, quest’ultima però è ritenuta troppo pericolosa e la camera si riunisce così a Tobruk sotto la supervisione del generale. Il 13 luglio, temendo i risultati elettorali, (lo spoglio avviene il 21 di luglio) le milizie di Misurata hanno lanciato l’operazione “ Alba Libica” nel tentativo di liberare l’aeroporto internazionale di tripoli controllato dalle milizie di Zitan. Ad agosto le milizie di Zitan, nonostante il supporto aereo degli Emirati Arabi, devono lasciare l’aeroporto. Il 25 agosto 94 membri, sotto pressione dell’alba libica, lasciano il CNG e fondano il Nuovo CNG e si proclamano legittimi al posto del parlamento eletto. La nuova formazione vede Nuri Busahnain presidente e come primo ministro Omar al-Hasi, Tripoli è nuovamente la capitale politica. Ecco che si vanno a definire due fazioni. Da una parte abbiamo il governo di Tripoli appoggiato dall’alba libica e il nuovo CNG, dall’altra il governo di Tobruk di Al-Thani appoggiato dalla comunità internazionale.

ASCESA DELL’ISIS
In una dinamica di profonda difficoltà e frattura politica un attore esterno non esita ad inserirsi. Il 3 ottobre a Derna il gruppo islamico Majilis Shura Shabab al-Islam si affilia all’ISIS di Al-Baghdadi proclamando il territorio “califfato”. Ha inizio così il Libia l’attività terroristica con l’attentato all’Hotel Cosinthia di Tripoli che comporterà la morte di cinque libici e cinque stranieri. L’8 febbraio li jihadisti prendono il controllo di Nofaliya ed infine il 13 febbraio entrano nella città di Sirte. Il governo italiano evacua l’ambasciata a Tripoli, si prospetta un attacco militare, smentito in seguito dall’ex presidente del consiglio. I miliziani dell’ISIS il 15 febbraio pubblicano online il video della decapitazione di ventuno cristiani egiziani copti rapiti a Sirte. L’Egitto in risposta interviene direttamente nel conflitto. Questo non ferma però li jihadisti che colpiscono la città di Gubba con attentati suicidi uccidendo 40 persone. Il 18 aprile 2015, a seguito della morte di 700 migranti in prossimità delle coste libiche l’UE avvia l’operazione Sophia allo scopo di contenere le rotte migratorie. Se da una parte l’ISIS avanza e consolida la propria influenza nella zona di sirte dall’altra parte perde i territori di Derna quando un altro gruppo di jihadisti non affiliati al sedicente stato islamico si contrappone all’avanzata del califfato. L’ISIS è anche indagato per essere il mandante di attività terroristiche in Tunisia; nello specifico all’attentato di Susa. Gli U.S.A intervengono nella guerra contro il califfato nella notte tra il14 ed il 15 Giugno con raid aereo nella città di Agedabia coordinandosi con il governo di Tobruk contro il terrorista Mokhtar Belnokthari. A metà del 2015 l’ISIS rafforza la sua posizione a Sirte mantenendo un forte contatto con le sedi di Iran e Iraq poiché la Libia è vista come il territorio in cui poter ripiegare nel caso in cui il califfato riporti delle sconfitte nei territori sopra menzionati. A Novembre 2015 gli Stati Uniti attaccano Derna uccidendo
Abu Nabil al Arban: il portavoce di Al-Baghdadi in Libia.

LA COMPARSA DI AL-SERRAJ
L’8 ottobre l’invito Onu Bernardino Leon presenta al-Serraj alla nomina di primo ministro nel nuovo governo di unità nazionale e per far ciò dovrà prendere il voto dei due parlamenti del paese. Il 13 Dicembre si tiene a Roma la conferenza di pace che vedrà la firma a Skhirat in Marocco del “Libyan Political Agreement” con lo scopo di far nascere un governo di unità nazionale. A causa però dell’opposizione dimostrata dai due parlamenti al-Serraj viene posto a capo del Consiglio Presidenziale, con l’incarico di formare un nuovo governo nell’arco di 30 giorni riconosciuto dalla comunità internazionale. Il 23 Dicembre il Consiglio di sicurezza dell’ONU riconosce il governo futuro. Serraj annuncia il 19 Gennaio a Tunisi la nascita di un governo di 32 membri, vedendosi negata però la fiducia; la Camera richiede una diminuzione dei membri. La stessa camera poi vota in favore del LPA rifiutando però l’articolo che conferisce al presidente del consiglio la rimozione dei vertici militari, tra cui Haftar. Il 14 febbraio Serraj presenta la lista, questa volta però con 18 nomi come da richiesta della camera. Il 21 febbraio l’esercito nazionale libico, grazie all’appoggio delle forze speciali francesi riprende possesso di diverse aree di Bengasi. Il 12 marzo il consiglio presidenziale chiede alla comunità internazionale il completo riconoscimento, interrompendo così i rapporti con Tobruk. Ciò avviene e il 30 marzo il governo di unità nazionale può insediarsi a Tripoli. Questo non fa che dividere il paese maggiormente il paese tra Est e Ovest dato che le forze di Haftar e il governo di Tobruk si contrappongono all’accordo nazionale di tripoli per l’esportazione di petrolio e per una offensiva contro l’ISIS a Sirte. La città libica sarà liberata dal governo di alleanza nazionale il 6 dicembre 2016 comportando così la sconfitta del califfato nel territorio libico. Nonostante però la vittoria di Sirte, come era prevedibile, il governo di serraj fatica a rafforzare la propria autorità a causa, oltre alla crisi economica, del mancato appoggio di Haftar. L’11 settembre Haftar prende con la forza i porti della mezzaluna petrolifera dal controllo della PFG, questa in accordi con il governo di Tripoli, si ha così per la prima volta uno scontro diretto tra le forze del generale e le forze del governo di unità nazionale. Il 29 novembre 2016 Haftar incontra le autorità di mosca per delineare un sostegno militare. L’Italia d’altro canto appoggia il governo di Serraj e riapre la propria ambasciata. Nel corso degli anni però il consenso verso il governo di Tobruk da parte della comunità internazionale sale, la figura del generale Haftar è sempre più importante nella politica libica, la sua persona vede un notevole rafforzamento a seguito della completa liberazione di Bengasi e viene visto come argine all’islamismo. Il 30 giugno le Drian definisce la Libia “uno stato fallito” definendo Haftar come “una parte necessaria della soluzione”. Sarà poi Macron a tentare l’avvicinamento tra Serraj e Haftar nel summit di Parigi del luglio 2017, cercando di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e il raggiungimento di nuove elezioni presidenziali e parlamentari. A Breida sarà approvato un progetto per una nuova Costituzione.

VERSO IL 2019
La situazione libica resta in ebollizione e nel paese non mancheranno nuove guerre e spargimenti di sangue tra le varie milizie, estensioni delle due forze che si contendono il controllo dello Stato. È giusto però adesso compiere un breve salto temporale per giungere alla situazione attuale con l’avanzata del 4 aprile e per vedere come l’Italia dovrà muoversi. Uno step fondamentale da ricordare prima però è l’incontro del 28 febbraio 2019 ad Abu Dhabi tra Serraj e Tobruk per arrivare ad un accordo di elezioni generali. Infine, arriviamo ad adesso e alla questione libica che non fa che complicarsi di ora in ora in un paese dilaniato da una guerra civile da otto anni e da un terrorismo sopito. Partiamo da quest’ultimo punto: l’ISIS sembrerebbe essere stato sconfitto ma il terrorismo è una piaga che continua ad infiltrarsi nei livelli più bassi della popolazione per il reclutamento dei soldati semplici; quando un popolo non ha più fiducia nelle istituzioni governative, quando si sente abbandonato e solo non fa che creare il terreno fertile per cellule terroristiche e trovandosi adesso con le spalle al muro sono più pericolose che mai. L’Italia si vede davanti il problema dell’immigrazione che i governi libici usano come arma per richiedere interventi a favore dell’una o dell’altra parte, oltre alle problematiche che l’immigrazione ripercuote a livello superficiale questo può rivelarsi un nemico più ostico comportando un maggiore sforzo da parte dei servizi di informazione. La sicurezza nazionale è minacciata con l’entrata sul suolo italiano di agenti reclutatori o di intere cellule terroristiche che entrano a pezzi sotto le mentite spoglie di migranti in fuga dal conflitto mettendo il terrorismo tra le minacce del nostro paese. Certo non se ne parla spesso dato che il paese non è mai stato colpito da attentati di matrice islamica, ma questo perché i servizi funzionano, nel caso in cui la minaccia dovesse aumentare e il numero di possibili sospetti aumentare si corre il rischio che non tutti possono passare al vaglio della rete di ingrandimento con la conseguenza di un rischio di attentati sempre più alto e con la possibilità che la problematica possa espandersi a macchia d’olio generando una situazione di caos. L’Italia ha interessi non di poco conto in Libia collegati alla sicurezza energetica e nello specifico nella dipendenza energetica che vede il 77% della sua richiesta energetica provenire dall’esterno a discapito della media europea che verte approssimativamente attorno al 54%. L’Italia vede l’uso del gas di provenienza estera al 90% contro il 70% europeo, questo è possibile grazie alla presenza di quattro gasdotti internazionali e alla rete di tre rigassificatori che si immettono a loro volta nella rete del paese. È qui che possiamo vedere l’importanza strategica della Libia per l’Italia dato che uno tra i gasdotti a cui l’Italia fa riferimento per il bisogno energetico è il Greenstream (ENI) che collega Melliath a Gela per una quantità di otto miliardi di metri cubi all’anno. I numeri come si evince non sono di poco conto ma a causa dell’instabilità del paese in cui le condutture si trovano l’Italia nel corso degli anni ha dovuto fare affidamento a reti estere come quella dell’Iraq, Azerbaijan e Russia. La situazione però non deve farci voltare la testa dato che la Libia volente o nolente è e rimane un nostro problema in cui siamo soli; gli USA dichiarando l’importanza della leadership dell’Italia nel conflitto libico non hanno fatto che lavarsene le mani lasciando ad altri la patata bollente. Serraj agli occhi della comunità internazionale risulta sempre più debole e incompetente nel tenere le fila di un paese che sembra rivoltarsi contro la sua autorità. Non a caso paesi come la Francia e gli UK appoggiano Haftar che detiene la maggioranza degli stabilimenti petroliferi del paese. È possibile che in un futuro prossimo anche grazie alla manovra con cui il generale a tentato di chiudere a tenaglia la città di Tripoli dimostrando potere agli occhi dei partner stranieri e possibili alleati questi dimostri di possedere le capacità di governare lo stato, unificandolo nuovamente sotto un generale cosi come avvenuto con Gheddafi. Da non dimenticare le condizioni di salute del generale, il quale, nel caso in cui questi salga al potere e venire a mancare andrebbe nuovamente a destabilizzare lo stato, questa volta il territorio però vedrebbe la presenza fissa dei paesi alleati al generale che sicuramente in cambio della collaborazione andrebbero a comandare zone petrolifere o assumendo posizioni strategiche nel mediterraneo non indifferenti. L’Italia adesso non può che aprirsi al dialogo con Haftar per essere pronta cosi ad ogni possibile cambiamento di leadership futura con il preciso scopo di mantenere saldo il controllo dei giacimenti e per impedire ondati di immigrazione future che andrebbero a destabilizzare l’equilibrio precario dell’Italia.

L’AZIONE GEOPOLITICA DELLA RUSSIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

INTRODUZIONE

La guerra civile siriana ha rappresentato un punto di svolta nella storia contemporanea del Medio Oriente e, più in generale, del contesto Mediterraneo, almeno quanto lo è stato l’intervento statunitense contro l’Iraq nel 2003, che portò alla rimozione del regime Baat’h di Saddam Hussein. Da quel momento, una serie di rivolgimenti politici, economici e sociali (la crisi finanziaria globale, le Primavere arabe, la caduta di Gheddafi, l’ascesa e la sconfitta territoriale dello Stato Islamico, la stessa guerra siriana) hanno determinato un graduale ripensamento degli Stati Uniti circa il loro ruolo di gendarme globale, favorendo l’ascesa, talvolta il ritorno dopo qualche decennio di assenza, di altri attori, soprattutto in quella regione spesso in fiamme. Sorprendentemente, non è la Cina, nonostante la crescita economica sostenuta e la progressiva penetrazione strategica nel continente africano (inaugurazione della base militare di Gibuti), il player che si è ritagliato un ruolo chiave dal punto di vista geopolitico nel contesto mediterraneo, bensì la Federazione russa. Il Cremlino non ha di certo soppiantato Washington quale attore principale, né come ‘provider’ di sicurezza nella regione. Non ha alcun interesse a farlo, oltre ad evidenti limiti strutturali che gli impediscono di rivendicare un tale ruolo. La sua azione nel Mediterraneo ha inteso dimostrare il ritorno ad una conduzione di politica estera indipendente e finalmente incisiva anche lontano dai suoi confini, dopo gli anni bui del periodo eltciniano. L’intervento nel conflitto siriano nel 2015 ha avuto come scopi precipui quello di proteggere l’unica base navale presente nel Mediterraneo, quella di Tartus, evitando il collasso del regime alawita di Bashar al-Assad e, contestualmente, mettendo pressione a tutte le parti in causa e ai loro sponsor affinché si pervenisse ad un immediato ‘cessate il fuoco’ e a una soluzione politica della controversia. Il dispiegamento di truppe, rifornimenti e consiglieri militari, unitamente ad un abilissimo uso della diplomazia nelle sedi istituzionali, hanno determinato il raggiungimento di tutti questi obiettivi già al termine del 2016, quando Mosca si mise a capo dell’asse di stabilizzazione del paese con Iran e Turchia -un membro della NATO- suoi alleati de facto. Non è stata casuale la scelta della sede dei colloqui, Astana, capitale del Kazakistan,
principale partner economico e di sicurezza di Mosca. Malgrado l’allineamento con la teocrazia sciita e i suoi proxy nella guerra siriana, che suggerirebbero una netta scelta di campo, l’abilità diplomatica russa è consistita nel mantenere equivalenti relazioni positive con i principali partner della regione, spesso in conflitto tra loro. Dall’Egitto ai paesi del Golfo, da Israele ad Hamas, dalla Turchia ai curdi, passando per i governi rivali libici di Tripoli e Tobruk, non esiste alcun attore nello scacchiere mediterraneo e mediorientale con cui Mosca non abbia in questi anni costruito relazioni cooperative. Quest’approccio pragmaticoassume ancora maggior rilevanza se si considera che nel recente passato sovietico la dirigenza russa era solita adottare stringenti posizioni di carattere ideologico, spesso sfociate in vere e proprie umiliazioni (si veda Afghanistan). L’azione di Mosca nel Mediterraneo, inizialmente difficile da decifrare da parte dei policy-maker occidentali, pone i seguenti interrogativi: Fino a che punto si spingerà nella regione un tale coinvolgimento? Quale sarà l’impatto sul piano regionale e globale in termini di balance of power con Stati Uniti, Unione Europea e paesi arabi?

LA STORIA
I legami culturali tra la Russia ed il Mediterraneo affondano le radici in tempi remoti, quando Bisanzio rappresentava il primo modello di governo cui ispirarsi. Quando l’Impero Romano Orientale collassò ad opera dei turchi nel 1453, il Granduca di Mosca Ivan III adottò l’aquila bizantina a due teste quale simbolo delle divise militari russe. Dal XVII secolo, Mosca iniziò a immaginare se stessa come la continuazione spirituale, oltre che politica, di Costantinopoli, “la Terza Roma”. La politica estera russa, sin da quel momento, ha annoverato tra i suoi principali push factors l’accesso ai mari, focalizzando la propria azione dapprima su quelli più in prossimità dei propri confini. La guerra con gli ottomani, che un giovane Pietro I condusse per il controllo del Mar Nero nel 1695, fu il preludio alla guerra per il Baltico contro gli svedesi al servizio dell’idea che Taganrog -sul Mare di Azov- dovesse divenire la nuova capitale dello stato modernizzato.
L’esperienza zarista e il bolscevismo dei primi anni videro la rinuncia totale a sforzi di proiezione geopolitica nell’area del Mediterraneo, fatta eccezione per la formazione della Società Imperiale Palestinese di Russia, fondata nel 1882, il cui scopo era di incrementare la presenza spirituale russa in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale attraverso le fondazioni di scuole e istituti di ricerca,che risultarono essere oltre cento alla vigilia dello scoppio della prima Guerra mondiale (1914). Il primo vero passo politico che segnò il battesimo sovietico nella regione risale al 1948, quando l’URSS figurò tra gli sponsor principali della creazione dello Stato di Israele e fu tra i primi aconcedere ad esso riconoscimento de iure, salvo poi interrompere ogni relazione diplomatica nel 1952, quando risultò chiara la duplice intenzione dello stato ebraico di non voler costituire l’avamposto socialista in Terra Santa né di servire la causa sovietica nella cornice della contrapposizione bipolare. Da quel momento, la strategia del Cremlino nell’area mediterranea e mediorientale si orientò a supporto delle prese di potere di regimi (soprattutto militari) che potessero esprimere una qualche forma di socialismo (Nasser in Egitto, Gheddafi in Libia, S.Hussein in Iraq) e dei movimenti di liberazione nazionale contro l’oppressore imperialista – Algeria e Yemen su tutti- tra il 1960 e il 1969. Sino a giungere alla rottura con l’Egitto di Sadat nel
corso degli anni Settanta, in conseguenza della firma di quest’ultimo degli accordi di pace di Camp David (1978) con Israele sotto l’egida Kissingeriana, che Mosca considerò inevitabilmente un doloroso ‘voltafaccia’ dopo il supporto politico e militare offerto nei molteplici conflitti tra il Cairo e lo stato ebraico. ‘Perso’ l’Egitto, Cremlino volse la sua azione d’influenza verso quelli che restavano gli unici alleati nella regione Mediterranea, Damasco, Tripoli e l’OLP. Pur offrendo i primi l’approdo del Quinto Squadrone Mediterraneo della flotta sovietica nella già menzionata base navale di Tartus, il presidente Hafez al-Assad, padre dell’attuale Bashar, si rivelò un negoziatore duro, che si servì dell’appoggio economico e militare di Mosca senza favorirne più di tanto l’influenza nella regione. Lo stesso schema si presentò in Libia ed Iraq, i cui ‘uomini forti’ iniziarono sin dalla metà degli anni Settanta a perseguire politiche assai indipendenti rispetto alle direttrici del Cremlino, pur continuando ad acquistare grossi quantitativi di armi. La disastrosa campagna militare decennale in Afghanistan (1979-1989), anticipò quello che sarebbe stato il ritiro russo dall’area Mediterranea e la definitiva perdita di qualsiasi influenza geopolitica. La partecipazione in veste di partner minore degli americani nella ‘Guerra del Golfo’ e il fallimento della ‘linea Gorbachev’ per la risoluzione della crisi (Saddam rifiutò ogni offerta di
mediazione russa a ritirarsi dal Kuwait), certificarono la nascita di un nuovo ordine mondiale, con un’unica superpotenza, a dettare le regole del gioco ed una serie di comprimari nel novero dei quali rientrava la nuova Federazione guidata da Eltsin, impegnata ormai non solo a riannodare i fili di un paese sull’orlo del disastro economico ma anche a svolgere una complicatissima opera di mediazione nei numerosi conflitti ‘nazionali’ che riguardavano le nuove entità statuali sorte dalle ceneri dell’URSS (Nagorno- Karabag, Tagikistan, Georgia ecc), oltre al sanguinoso conflitto in Cecenia. Nel frattempo continuò la serie di disaccordi tra il vertice russo e Washington con riferimento alla regione. Agli occhi di Mosca, l’invasione dell’Iraq del 2003 ha rappresentato la fonte primaria dell’instabilità che caratterizza attualmente l’area, non solo perché i moventi dell’intervento (supporto ad Al-Qaeda e presenza di armi di distruzione di massa) si sono rivelati sin da subito infondati, ma perché il risultato di quell’azione è stato lo smantellamento di un sistema politico e di sicurezza, che ha privato di ogni argine il settarismo, il radicalismo ed infine il terrorismo, tutti elementi costitutivi dello Sato islamico. Allo stesso modo, Mosca non ha condiviso l’entusiasmo occidentale per le Primavere Arabe del 2010-2011 soprattutto in riferimento ai miglioramenti sociopolitici ed economici che questi rivolgimenti avrebbero apportato. Al contrario, essi sono stati inquadrati nell’ambito di una più generale strategia occidentale di accrescimento della propria influenza nell’area mediterranea. Una sorta di continuazione delle “Rivoluzioni Colorate” che avevano interessato i confini della Federazione Russa, ovvero Georgia (2003), Ukraina (2004-2005) e Kyrgystan (2005). Queste preoccupazioni hanno spinto Mosca ad adottare una linea assai più risoluta nel Mediterraneo, che si è estrinsecata attraverso dialoghi ed accordi di senso pragmatico con gli attori della regione, inclusi gli Islamisti, come testimonia l’invito al Cremlino di Mohammed Morsi, candidato vittorioso della Fratellanza Musulmana alle elezioni egiziane del 2012, le prime dopo la caduta di Mubarak, tradizionale alleato USA nella regione. A tal proposito, la crisi libica del 2011 insegnò alla dirigenza del Cremlino un’importante lezione su quale approccio adottare nei confronti della politica d’influenza posta in essere dai player occidentali. Al netto di nessuna relazione particolare con Gheddafi, al momento dello scoppio delle ostilità
(febbraio 2011), la Russia aveva in essere numerosi contratti relativi a forniture di armi e progetti d’infrastrutture per un valore complessivo di sette miliardi di dollari ed era chiaramente interessata a conservarli. Tuttavia il test-case dei rapporti con USA e UE si rivelò assai deludente negli esiti per il Cremlino in quanto, secondo il giudizio dell’allora presidente D.Medvedev, la cooperazione non si svolse su basi egualitarie e non fu tenuto conto in nessun modo degli interessi russi citati. L’intervento NATO si spinse ben oltre le sue finalità di pacificazione originarie, determinando l’uccisione del dittatore e la completa disintegrazione dell’unità statuale libica, che favorì il disseminarsi di milizie armate su tutto il territorio. La conclusione di Mosca rispetto alla vicenda fu che degli USA non ci si può fidare e che ulteriori crisi avrebbero visto una risposta russa assai differente. Il cambio di atteggiamento arrivò proprio nel Mediterraneo in occasione della crisi siriana (2015). In sede ONU, la Russia fece ampio uso dello strumento del veto al fine di bloccare risoluzioni che avrebbero potuto fornire basi legali per interventi militari. Allo stesso modo, Mosca fu prodiga di consiglieri militari, supporto logistico e rifornimento di armi nei confronti di Damasco al fine di resistere alle pressioni dei ribelli. Quando nell’agosto 2013 gli Stati Uniti erano sul punto di intervenire militarmente in seguito all’utilizzo di armi chimiche da parte del regime alawita, Putin offri ad Obama, nel corso di un breve incontro a margine del G20 di San Pietroburgo del mese seguente, la disponibilità a persuadere al-Assad di porre fine a tale strategia, riuscendo nell’intento già a inizio 2014. Questa mossa di fine diplomazia non solo ha scongiurato l’intervento militare USA, ma ha avuto il merito, forse per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, di porre il dialogo con Washington su basi paritarie.

LA STRATEGIA
Quando il conflitto è alla fine deflagrato, l’analisi della strategia militare russa posta in essere nel corso del conflitto siriano, getta luce definitivamente sul nuovo orientamento globale del Cremlino. Putin l’ha definita non a caso “guerra di scelta”, in quanto riguardava una regione lontana, dalle conseguenze imprevedibili, soprattutto sul rapporto con Washington. Avendo deciso che “la Siria non sarà un’altra Libia”, Putin si è adoperato a fornire assistenza immediata ad un regime che aveva perso già gran parte del territorio e che stava per cadere sotto i colpi di una coalizione che andava dai sauditi ai turchi, passando per il Qatar ed organizzazioni locali quali Jabkhat al Nusra. La visita al Cremlino del Capo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane Suleimani nel Luglio 2015 ha posto le basi per la formazione di un asse che prevedeva il dispiegamento di migliaia di combattenti sciiti sul campo, provenienti soprattutto dal corpo dei Basij e dai militanti libanesi di Hezbollah, alleati di Teheran con il supporto aereo e la fornitura di armi russe, grazie al gruppo di base a Hmeimim,
appena a Sud della città di Latakia. L’entrata in guerra ufficiale al fianco di Assad data 30 settembre 2015, sfruttando la nota di un trattato di cooperazione sottoscritto nel 1980, ancora in vigore. L’obiettivo a breve termine di Putin era quello di evitare il crollo di Assad e contestualmente il proliferare di milizie jihadiste che conosceva bene, avendole fronteggiate nel corso della guerra in Cecenia. Nel giro di un anno, anche grazie all’azione della Turchia, unitasi nell’asse di pacificazione con Mosca e Teheran, e complice la totale mancanza di visione strategica di Washington, il regime di Assad ha rialzato la china definitivamente, recuperando aree chiave del Paese quale Aleppo, divenuta fortino dell’opposizione islamista e in ultima istanza la provincia di Idlib. A quattro anni dallo scoppio del conflitto, il principale risultato è che la Federazione è tornata nell’arena globale con un peso centrale in una regione, quella mediterranea e mediorientale, che tradizionalmente rappresenta il laboratorio per la configurazione geopolitica globale, impedendo conseguenze che avrebbero considerato nefaste per i suoi interessi. In secondo luogo, l’elemento strategico ha dimostrato di essere un efficace strumento della politica estera russa, con una vittoria geopolitica netta in tutte le sue variabili raggiunta con un numero di perdite minimo e un dispendio finanziario minimo. Infine, l’abilità dimostrata a non cadere in uno dei molteplici campi in cui divisa la regione mediterranea (sunniti contro sciiti, sauditi contro iraniani, turchi contro curdi e
cosi via), perseguendo in maniera pragmatica il proprio interesse sul piano in un’ottica globale.

I LEGAMI COMMERCIALI
Gli interessi preminenti della Federazione russa restano prevalentemente geopolitici, essenzialmente legati alla sicurezza e i paesi dell’area mediterranea non rappresentano i principali partner commerciali del Cremlino. Tuttavia, sin dalla fine della guerra fredda, si è verificata un’espansione degli scambi economici che ha raggiunto il suo culmine negli ultimi anni. Essa riguarda soprattutto il settore dell’energia, delle armi e dei cereali. I 4/5 del commercio regionale
con la Russia riguardano la Turchia (circa il 68%), l’Iran e Israele. Tra i partner arabi va annoverato il flusso di scambi con l’Egitto (7%). La struttura, alquanto povera di questi scambi, riflette la scarsa capacità di Mosca di diversificare la propria economia, ancora troppo dipendente dalla rendita energetica. Il ruolo di player economico giocato dalla Russia nella regione, con riferimento a prodotti energetici, subisce una forte limitazione anche dal fatto che la maggior parte dei paesi mediterranei e mediorientali sono produttori ed esportatori di idrocarburi. Nonostante queste oggettive limitazioni, la diplomazia energetica del Cremlino ha prodotto un grade risultato, allorquando, nel 2016, riuscì a negoziare un accordo con l’OPEC che determinò una riduzione della produzione e, conseguentemente, un rialzo del prezzo delle materie prime, con reciproco vantaggio per i paesi OPEC e quelli esterni all’organizzazione, a capo dei quali vi era proprio la Federazione russa. Questo risultato va di pari passo con la decisione di un fondo sovrano qatariota di acquisire il 19.5% di azioni della Rosneft, compagnia energetica di stato russa, nel corso dello stesso anno, nonostante le opposte istanze sostenute nell’ambito del conflitto siriano. L’accordo con Rosneft ha funto da preludio di un ulteriore accordo tra il Qatar e Novatek, il più grande produttore privato di gas della Federazione. La presenza energetica russa nel Mediterraneo si manifesta oggi soprattutto attraverso le forniture di gas da parte di Gazprom alla Turchia mediante la Blue Stream Pipeline, che da Novorossiysk giunge sino a Samsun, attraversando il Mar Nero. Oltre a gas naturale e petrolio, il nucleare rappresenta un vero asset nella regione per la Russia, le cui compagnie Rosatom e Atomstroiexport, raggiungono nel Mediterraneo circa il 60% del loro portfolio. L’accordo per la costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu, in Turchia, ha superato anche il momento difficile nelle relazioni russo-turche del 2016 ed è stato confermato nel summit di Mosca del marzo 2017. Quanto alla vendita di armamenti, la Federazione russa, seconda solo agli Stati Uniti a livello globale, ha tradizionalmente guardato al Mediterraneo come uno dei suoi principali mercati, sin dal periodo zarista. Sin dagli anni ’50 del Novecento, Mosca è stata il maggior fornitore di armi dei paesi dell’area mediterranea dall’Algeria allo Yemen, in virtù delle sue considerazioni strategico/ideologiche talvolta slegate da finalità economiche. Attualmente, pur essendo molto lontani in termini di cifre e presenza rispetto all’epoca del confronto bipolare, relazioni assai proficue nel settore tecnologico/
militare sono intrattenute con tutti i maggiori paesi. L’intervento nel conflitto siriano ha certamente contribuito ad accrescere il prestigio strategico russo e delle sue tecnologie d’armamento. Con riferimento all’Egitto, dopo la presa di potere di Al-Sisi nel 2013, un aumento dei contratti è proceduto di pari passo con meeting periodici tra i rispettivi stati maggiore della difesa. La Siria, principale alleato dell’Unione Sovietica durante la guerra fredda, rappresenta il maggiore cliente dallo scoppio dell’insorgenza interna nel 2011 con un’importazione di armamenti e munizioni che supera un miliardo di dollari in termini di valore. Nel solo 2016 Mosca ha trasferito a Damasco circa dieci modernissimi Su-24 M2 caccia bombardieri. Allo stesso modo l’Iraq, altro cliente privilegiato dell’URSS da metà degli anni 60 in poi, ha ripreso a importare aerei Su-25, Mi-8, Mi-17 ed elicotteri Mi-35M, sistemi di difesa aerea Pantsyr-S1 tra il 2012 e il 2016, dopo la discontinuità seguita alla Guerra del Golfo e alla contestuale implosione del blocco sovietico. Quanto alla Libia, nei decenni di governo Gheddafi, ha rappresentato il principale cliente in fatto di armi dall’Unione Sovietica, salvo poi sostituire il supplier ormai decaduto, con i fornitori europei Francia e Italia su tutti. Quando le sanzioni economiche per l’affare Lockerbie sono state definitivamente sollevate nel 2006, Mosca è tornata al suo rango di principale fornitore di armi per il regime di Tripoli con la firma di contratti milionari che includevano decine di MiG-29 SMT caccia, sistemi di difesa Tor-M1 e sottomarini Class 636. La caduta rovinosa del rais ha impedito la piena applicazione dell’accordo ma il Cremlino resta fiducioso sul fatto che il paese mediterraneo
possa diventare nuovamente un florido mercato una volta stabilizzatosi sul piano interno. L’appoggio di Mosca all’uomo forte della cirenaica Khalifa Haftar va certamente in questa direzione. Sorprendentemente, nei primi dieci anni del nuovo millennio, è stata l’Algeria che si è aggiudicata la ‘corsa’ agli armamenti russi con contratti dal valore complessivo di otto miliardi di dollari. Gli accordi includono Su-30 MKI(A) e caccia MiG-29, SMT/UBT, sistemi di difesa aerea
S- 300 PMU2, carri armati T-90 (100 veicoli solo nel 2016). Una volta completato il suo riarmo, l’Algeria continuerà a dipendere dalla Russia per la manutenzione, modernizzazione e nuove armi. A fronte di un programma di riarmo di 700 miliardi di dollari, i proventi dell’industria della difesa russa dipenderanno in misura assai maggiore dalle esportazioni. Da questo punto di vista la regione mediterranea ne costituisce il mercato principale.

CONCLUSIONI
La Russia non ha messo a punto ancora una grand strategy per l’area mediterranea, ma il suo ritorno nella regione è di significativa importanza strategica sia per se stessa che per gli altri attori, regionali e globali, presenti nella regione. La sua presenza sulla scena dopo venticinque anni di assenza ha contribuito fortemente a ridisegnare la configurazione di quest’area, tradizionalmente anticamera delle tendenze globali. Mosca ha dimostrato in quest’area che la combinazione di una chiara visione strategica, un’abile diplomazia e una forte volontà politica contribuiscono non a velleitarie proiezioni d’influenza, che non interessano al Cremlino, bensì a dimostrare la fine della subalternità all’Occidente nelle questioni globali. L’obiettivo di Putin di portare Mosca di nuovo al
centro dello scenario globale, ha scelto come sede privilegiata proprio il Mediterraneo Orientale. Il prossimo passo sarà quello di sedimentare la presenza mediante prove di affidabilità, tra cui una pace definitiva in Siria, un ruolo centrale nella mediazione tra Al Serraj e Haftar in Libia (anche se Mosca ha più volte osteggiato il debole governo di Tripoli internazionalmente riconosciuto, considerato espressione dell’influenza occidentale) e la salvaguardia dell’accordo sul nucleare iraniano ripudiato da Trump un anno fa. L’azione di Mosca nella regione mediterranea non mira a scalzare gli USA (non sarebbe possibile dati i limiti strutturali precedentemente citati), bensì a costringere Washington al dialogo e alla cooperazione su basi paritarie al fine di creare un equilibrio che coinvolga anche la Cina, il principale partner commerciale russo, e i maggiori attori della regione (Turchia, Iran ed Egitto). La chiave per realizzare tale intento è un progetto di stabilità politica e di sviluppo economico di lungo termine, anche a fronte di dolorose transizioni di potere che si prospettano all’orizzonte. Occorrono, a tal fine, obiettivi chiari e senso del futuro. Il retaggio storico, fatto di legami e assistenza non basta più.

LA VOCAZIONE (MANCATA) NEOATLANTICA DELL’ITALIA

L’offensiva del generale Haftar mette a nudo la debolezza diplomatica e strategica dell’Italia che non riesce a riscoprire quella sua vocazione NeoAtlantista, che nei primi anni della guerra fredda alcuni esponenti della Democrazia Cristiana, come Giuseppe Pella o Amintore Fanfani, ebbero il coraggio di sviluppare nelle relazioni internazionali dell’Italia post-1945 e repubblicana.

INTRODUZIONE
Nelle menti di Pella e Fanfani, la giovane politica estera dell’Italia Repubblicana doveva applicare un dinamismo aggressivo con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa con il fine di allacciare con essi relazioni diplomatiche, incentrate sui rapporti economici e commerciali. Il Neoatlantismo puntava a far diventare l’Italia il paese guida del Mediterraneo, all’interno della NATO; Roma sperava di spingere la diplomazia USA ad appoggiare i processi di decolonizzazione che stavano avendo luogo in Africa. In esso l’Italia ambiva ad ottenere da Washington, e dai membri dell’Alleanza Atlantica, il ruolo di potenza regionale del Mediterraneo, per poter operare in autonomia, per conto di Washington. Per Pella e Fanfani la visione NeoAtlantica dell’Italia mirava a far diventare il nostro paese ponte di congiunzione tra il blocco occidentale e i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, con il fine di evitare un espansione economica e politico-militare dell’Unione Sovietica nella regione. Ma l’iniziativa neoatlantista di Roma venne vista con forte scetticismo da alcuni membri della NATO, in primis la Francia e la Gran Bretagna per via che le iniziative erano portate avanti non dal Governo Italiano ma dall’allora presidente e fondatore dell’ENI, Enrico Mattei.
Il Fondatore dell’azienda petrolifera Italiana aveva attuato una propria politica estera nei paesi arabi della sponda sud del Mediterraneo, tra cui l’Egitto di Nasser. Nei piani dell’allora governo la visione NeoAtlantica aveva delineato di applicare una politica estera, incentrata con quei paesi che erano entrati in fase di sviluppo economico. Il Neo-Atlantismo doveva far accrescere il ruolo dell’Italia, all’interno dell’Alleanza, puntando al ruolo di gendarme del Mediterraneo, attraverso una politica estera dinamica e incentrata sulle alleanze tra il nostro paese e i paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Ma nei fatti il Neo-Atlantismo, tanto ambito da Pella e Fanfani, non venne mai attuato dalle autorità governative di allora. Alcuni sparuti tentativi vennero messi in atto da Enrico Mattei con l’attivismo dell’ENI, ma il NeoAtlantismo italiano venne ostacolato dalle posizioni anglo-francesi(in primis) e da quelle americane, sia nelle relazioni internazionali di Roma sia all’interno della stessa Alleanza Atlantica.

“TEORIA” DEL NEO-ATLANTISMO ITALIANO
Pella e Fanfani avevano teorizzato una politica estera italiana che avrebbe dovuto coniugare le ambizioni di Roma di risorgere a potenza regionale del Mediterraneo, con il fine di tutelare gli interessi nazionali italiani guardando al realismo di restare ancorata alla NATO. Ma il neoAtlantismo non aveva messo in conto le esigenze che attraversavano il periodo della guerra fredda, dove le esigenze della NATO superavano gli interessi nazionali dei paesi appartenenti all’Alleanza. Giuseppe Pella coniò il termine Neo-Atlantismo nel 1957. Il Neo-Atlantismo che Pella proponeva si basava in una azione dinamica e non militare
dell’Alleanza Atlantica da applicare nei paesi Medio Orientali. Se alcuni lo disegnavano come una nuova visione, de facto il Neo-Atlantismo italiano era una combinazione di antiche posizioni in cui si inseriva il rientro italiano come paese leader del Mar Mediterraneo, vista la posizione geografica del nostro paese, per garantire la sicurezza dei suoi interessi nazionali, nella cornice dell’Alleanza Atlantica in cui operava dal 1949. La visione Neo-Atlantista di Roma, teorizzata da Pella e da Fanfani, si legava ad antiche iniziative che risalivano sin dalla politica sabauda pre-Unità ma guardando al futuro della Repubblica Italiana
nella cornice della visione atlantica euro-americana. Nel periodo del Neo-Atlantismo erano sorti diversi centri di potere all’interno dello Stato Italiano, ognuno con il proprio interesse, ma compatti su una critica nei confronti della politica italiana e del suo appiattimento verso il Patto Atlantico; i diversi centri di potere, spinti e influenzati da una parte della classe politica italiana criticava l’atteggiamento passivo di Roma sullo scacchiere internazionale. Questo porta alla creazione, all’interno di una parte della classe dirigente, di una visione revisionista della politica estera, con il fine di ridiscutere i contenuti dell’Alleanza per Roma. Il Neoatlantismo mirava a concedere all’Italia ampi spazi di manovra internazionale per conto della stessa Alleanza Atlantica. Ma solamente il Presidente dell’ENI, Enrico Mattei, applicò con metodi poco ortodossi, le prime iniziative neoatlantiste ufficiose. Esse però ebbero pochissima incisione visto il poco appoggio che ebbe dalla stessa classe dirigente italiana. Sul fenomeno NeoAtlantista si è aperto un dibattito proficuo, sulle persone che hanno teorizzato un
possibile nuovo corso della politica estera italiana dei primi anni della guerra fredda. Gli storici si dividono sul NeoAtlantismo; da una parte alcuni la definiscono confusa, inconsistente e poco chiara; sul lato opposto alcuni la definiscono innovativa, collegata all’antica politica estera italiana legata alla vocazione mediterranea, condizionata dalla sua posizione geografica. Il dibattito mette d’accordo solamente quando si discute sui probabili teorici neoatlantisti. Tra i teorici si annoverano il Segretario della Democrazia Cristiana ed ex Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, il Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi, il Presidente dell’ENI Enrico Mattei, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira e Giuseppe Pella, l’inventore del termine NeoAtlantismo, nonché ex Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri del Governo Zoli. Loro vengono visti come i primi che tentarono, senza successo all’epoca, di sviluppare una nuova visione della politica estera italiana.

IL NEOATLANTISMO NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
La teoria Neo-Atlantica dovette scontrarsi con la cruda realtà. La politica estera italiana ambiva a rivalutare il suo ruolo interno alla NATO, che l’Italia vedeva come un alleanza impari nei confronti dei suoi partner, in primis verso gli Stati Uniti. La visione neo-Atlantica di Roma aveva come target quello di tutelare gli interessi nazionali dell’Italia ed evitare che venissero risucchiati dalle esigenze statunitensi ed euroatlantiche del blocco occidentale. Il principale dilemma era quello di discutere con le alte sfere di Washington e di assicurare gli Stati Uniti della fedeltà italiana nei confronti della sua fedeltà ai principi atlantici.
Per Roma il neoatlantismo doveva concedere una politica estera flessibile ed autonoma dell’Italia nel Mediterraneo, con il fine di tutelare gli interessi nazionali italiani, sia in campo politico sia economico, nella regione. Per l’Italia in Neo-Atlantismo era un modus con cui gli USA concedevano a Roma lo status di potenza regionale del Mar Mediterraneo, con il fine di operare anche in nome di Washington. Roma vide dopo il 1956 uno scenario internazionale completamente cambiato e per l’Italia questo era il segno che c’era bisogno di un dibattito serio anche all’interno del mondo atlantista. Per l’Italia il neo-Atlantismo concedeva l’opportunità di aprire canali diplomatici con i paesi del Mediterraneo e, in alcuni casi eccezionali, con quelli dell’Europa dell’est; paesi che stavano attuando una profonda trasformazione delle loro strategie in campo internazionale e confusi sia dal messaggio statunitense sia da quello sovietico post-stalin, che se da una parte la dirigenza sovietica post-stalinista condannava i metodi del regime staliniano, non allentò la presa repressiva sui paesi satelliti dell’URSS. Il dibattito ebbe massima risonanza dopo la crisi di Suez. Il fallito tentativo anglo-francese di far risorgere una politica neocoloniale all’interno della cornice atlantica sfumò definitivamente dopo Suez. La Crisi di Suez ed il successivo intervento anglo-francese rischiarono di danneggiare la
reputazione della NATO e del mondo occidentale agli occhi dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, che vedevano nell’Occidente il colonialismo imperiale di Parigi e di Londra. Il Neo-Atlantismo di Roma era la riflessione che la politica coloniale di alcuni membri interni alla NATO rischiava di danneggiare le future relazioni internazionali con quei paesi della regione mediterranea che avevano ottenuto da poco l’indipendenza. Altro cambiamento era che la politica di potenza veniva messa in secondo piano da altri strumenti come la diplomazia e l’intelligenza politica. Roma ambiva a riscrivere con il Neo-Atlantismo la gerarchia interna alla NATO a danno di Francia e Gran Bretagna e di applicare un atlantismo attivo nelle aeree delimitate, supportato dal legame
strategico che connetteva il nostro paese agli Stati Uniti. La strategia italiana mirava a inserire soluzioni significative, per far diventare il blocco occidentale
la coscienza critica e la mente politica delle alleanze occidentali, per avere ottimi rapporti con i paesi da poco indipendenti del continente africano e asiatico.
Il Neo-Atlantismo di Roma mirava ad una politica mediterranea, che de facto avrebbe dato al nostro paese quel lascia passare e i compiti che tacitamente avevamo avuto da Washington al momento della nostra entrata nel “club” dell’Alleanza. La nostra posizione geografica e il dislocamento dell’Italia all’interno del perimetro difensivo della NATO ci assegnava il ruolo di “ponte” tra il continente europeo e quello africano. Tacitamente Washington e il resto dei partner atlantici avrebbero accettato Roma come paese guida del Mar Mediterraneo; ma la rivendicazione di Roma venne vista nelle istituzioni atlantiche come
una possibile deriva italiana su posizioni nettamente neutraliste. Ciò ostacolò i tentativi italiani di legittimare la visione Neo-Atlantica agli occhi degli alleati.
Nelle intenzioni dei NeoAtlantisti era necessario analizzare in profondità il cambiamento dello scontro bipolare tra Est ed Ovest, ed evitare eventuali fratture tra Roma e Washington e dell’Atlantismo, che era rimasto forte all’interno degli ambienti politici italiani. Il Neo-Atlantismo cercò di dare un impronta chiara alla definizione di Atlantismo e di stabilire una futura azione globale di un Alleanza che era improntata su obiettivi regionali. Il dibattito era influenzato dal repentino cambiamento della politica estera sovietica post-stalinista che puntava nelle zone extraeuropee e nei processi di decolonizzazione in atto.
Il Dibattito interno alla comunità Atlantica si interrogava sul nuovo corso che l’Alleanza doveva tenere tra Neo-Atlantismo e la vecchia politica Atlantica. La visione portata dall’Italia però non ebbe il consenso condiviso, dimostrandosi poco capace di concedere un modello che mettesse d’accordo i membri della comunità Atlantica nell’affrontare le sfide dei nuovi rapporti internazionali e la transizione tra la guerra fredda e la coesistenza competitiva bipolare USA-URSS.
Il Neo-Atlantismo nei piani italiani non ambiva a creare un nuovo corso “all’Italiana” ma nel definire, secondo i piani di Roma, i contorni in cui l’Italia doveva muoversi, tutelando le ambizioni nazionali, nello scacchiere internazionale dell’epoca. Il Neo-Atlantismo per Roma significava applicare una partecipazione attiva nel dibattito incentrato sui compiti che la NATO doveva avere in futuro, in relazione ai cambiamenti globali che stavano sconvolgendo il panorama internazionale. Nella visione NeoAtlantica l’Italia mirava a tutelare i propri interessi nazionali, ma pronta a sacrificarli in nome dell’interesse generale dell’Alleanza; il NeoAtlantismo, secondo la visione italiana, non voleva mettere in discussione il legame con Washington e con gli alleati ma mettere il
neo-atlantismo a disposizione di una politica atlantica propositiva nel Mar Mediterraneo, in cui veniva riconosciuta l’egemonia di Washington ma che Roma né richiedeva un potenziamento nella zona mediterranea. Questo nuovo corso però doveva convincere gli Stati Uniti nel rendere il rapporto italo-statunitense
da subalterno, che Roma subiva, ad uno di interdipendenza paritario. Se fosse avvenuta questa transizione le esigenze italiane avrebbero retto al cambiamento e la politica estera nel mediterraneo avrebbe ricevuto un maggior supporto al dinamismo neo-atlantista. Ma il limite principale del neo-atlantismo erano le risorse che Roma poteva mettere a disposizione; strumenti economici, politico-militari e personale politico, che all’epoca non poteva( e in alcuni casi non voleva) permettersi. Inoltre per rendere effettivo il Neo-Atlantismo mancava una forte leadership verticale. Doveva esserci un Presidente del Consiglio che fosse stato in grado di avere il supporto condiviso del suo partito e degli alleati di governo, convincere il proprio dicastero degli affari esteri nel seguire la sua visione, doveva avere un solido carisma e una efficiente dialettica per rendere effettiva la visione neo-atlantista dell’Italia. Il Neo-Atlantismo, infine, doveva avere il supporto della Presidenza del Consiglio, del Ministero degli Esteri e il sostegno della Presidenza della Repubblica. Solamente in questo modo l’Italia avrebbe potuto ergersi a voce unitaria sulla questione mediterranea, incentrando la sua politica estera alla decolonizzazione ; solamente in questo modo
avrebbe portato nelle istituzioni atlantiche di allora la sua visione, una visione Neo-Atlantica.

Fonti
Bagnato Bruna, L’Italia e la Guerra d’Algeria, Rubbettino 2012,
Cap “De Neo-Atlantismo” pag 205-221
Bagnato B. Petrolio e Politica, Mattei in Marocco, Firenze Polistampa 2004
Cap 3 paragrafo “Simmetrie neo-atlantiche” pag 152-174